La storia è piena di donne che hanno sacrificato la propria esistenza pur di stare al fianco di un uomo. Ma la storia di Anita è diversa perché lei stette al fianco di un uomo che era un ideale, non l’uomo ideale, l’uomo che era un ideale.
La storia d’amore di Ana Maria de Jesus Ribeiro de Silva e Giuseppe Garibaldi è esattamente questo, una storia d’amore tra due persone che si amavano e che amavano la libertà e la giustizia più di ogni altra cosa.
Si incontrarono per caso: mentre Garibaldi guardava la riva attraccato al largo di Laguna a bordo del veliero Itaparica, scorse Aninha, così la chiamava suo papà, mentre passeggiava sulla riva. Lei era alta, portamento fiero ed elegante, lunghi capelli neri sciolti sulla schiena. Fu amore a prima vista.
Lui era arrivato in Brasile per appoggiare gli abitanti dei territori del Rio Grande do Sud, in rivolta contro l’imperatore Pedro II. Il giorno della liberazione di Laguna, Garibaldi riuscì a farsi presentare Aninha e la vita li legò per sempre. Era il giugno 1839.
La grandezza di questa donna è celebrata sul Gianicolo a Roma, in una delle poche statue equestri esistenti al mondo dedicate a una donna: raffigura Anita, come la chiamava Giuseppe, a cavallo, pistola in mano e il figlio Menotti stretto tra le braccia. Non esiste immagine in grado di descrivere meglio questa donna. Il monumento raffigura un episodio di vita vera, la fuga di notte a cavallo per sfuggire alle guardie imperiali. È il settembre 1840, Menotti ha dodici giorni, lei monta a cavallo e scappa nei boschi alle spalle della città di San Simon, portando in salvo se stessa, il bambino e guidando i soldati di Giuseppe che si era allontanato in cerca di cibo e vestiti.
Anita rimase sempre al fianco del suo uomo, nella pace domestica come nei campi di battaglia, in Brasile, poi in Uruguay e in Italia.
A Garibaldi non mancarono le occasioni per condurre una vita agiata: a Montevideo gli venne offerta una cattedra di matematica in un collegio ma resistette poco. Nel frattempo era scoppiata la guerra tra Argentina e Uruguay e lui accolse lo spirito guerriero che lo tormentava, mettendosi a capo della Legione Italiana. Fu Anita a cucire le divise per questa nuova missione, acquistando al mercato grossi rotoli di flanella rossa destinati ai macellai di Buenos Aires e che non erano stati consegnati per colpa della guerra. Nacquero così le camicie garibaldine.
E Anita fu al suo fianco anche nel nostro Paese, dove sbarcarono nel 1848. Prima lei, accolta dalla folla. E poi lui, tre mesi dopo.
L’atmosfera rivoluzionaria, il sentimento di giustizia e libertà che attraversava la Nazione in quel periodo, conquistò i loro cuori infuocati e non poterono fare a meno di mettersi in gioco. Quando a giugno di quello stesso anno Garibaldi entrò a Roma a cavallo, nessuno sapeva che quell’uomo bellissimo, quel valoroso e coraggioso combattente aveva imparato a cavalcare grazie a sua moglie, che prima di lui galoppava senza sella negli spazi sconfinati del Brasile. Ma conobbero presto il valore di Anita. Lei infatti lasciò i loro tre figli (nel frattempo la famiglia si era allargata) alla mamma di Giuseppe a Nizza e partì anch’essa alla volta della capitale per scendere in battaglia: raccolse i suoi capelli in una treccia e con un secco colpo di cesoia li tagliò, per vestirsi da soldato.
A Roma le cose non andarono come sperato e i garibaldini dovettero arrendersi: era il 4 luglio 1849, Giuseppe compiva 42 anni. Decise di partire alla volta di Venezia, ancora assediata dagli austriaci e Anita sempre dietro, nuovamente incinta, affaticata e debole. È lungo questo viaggio che la guerriera morì, troppe erano state le fatiche e le privazioni a Roma. Fino alla fine dei suoi giorni però, Giuseppe e i suoi uomini non la lasciarono, rimasero sempre insieme. Benché nell’ultimo periodo lei fosse malata e inferma, rifiutò le cure e i patrioti garibaldini la portarono sempre con loro perché questo era quello che lei voleva.
Ora guardiamo di nuovo la statua sul Gianicolo: guardiamo la forza e l’energia che sprigiona da questa figura, opera di Mario Rutelli.
Lei è seppellita nel basamento: la sua salma fu trasportata lì nel 1932, anno di realizzazione dell’opera. Il corpo è lì ma lo spirito di Anita è tra noi. Anita non è morta veramente. Rutelli ha saputo fermare il tempo, i suoi capelli sono sciolti nell’aria, il cavallo galoppa e lei è per sempre viva e libera nel vento mentre cavalca gli spazi infiniti della sua storia e della nostra mente, spazi che esistono solo per chi come lei e Giuseppe crede fermamente nella libertà.
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